PISOGNE

Caterina e il volontariato in carcere

“Ti buttano addosso rabbia, dolore e sogni. Per le donne detenute la maternità è struggente”.

Caterina e il volontariato in carcere
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Caterina ha una voce dolce e tanto da raccontare. Loverese di nascita, poi, da piccola, si è trasferita a Pisogne e qui, sulle sponde del suo lago ci torna ogni fine settimana, dove vivono i suoi genitori, dove si sente sempre a casa. Caterina di cognome fa Vianelli, abita in città, a Brescia, classe 1965 e una vita dedicata agli altri. Gli altri che si trovano dietro le mura del carcere. La sua ‘missione’ inizia nel 1996, dopo la laurea in Lettere “che però non ho mai sfruttato come insegnante, visto che ho sempre lavorato a Concesio all’Istituto Paolo VI”. E poi il volontariato che le riempie le giornate, “a dire la verità mi impegna parecchio a livello di preoccupazione, di tempo e di sentimento”, dice sorridendo. Caterina dal 2018 è presidente di Vol.Ca Odv, Volontariato carcere (l’associazione opera nella casa circondariale ‘Nerio Fischione’, ex Canton Mombello, con oltre 300 detenuti in attesa di giudizio e nella casa di reclusione Verziano dove ci sono sia uomini che donne, 120, e questa è anche casa circondariale per le donne) e proprio con lei ripercorriamo la sua storia. “Era il 1996, ero presidente del gruppo delle donne CIF (Centro Italiano Femminile, ndr) e avevo chiesto a suor Mirella Roda, una canossiana volontaria nel carcere, e a don Adriano Santus, cappellano della casa circondariale di Brescia di parlare ad una riunione sulla condizione della donna in carcere e da lì è nato il mio interesse verso questo mondo. Ho parlato con loro chiedendo se potessi essere utile in qualche modo con la mia laurea all’interno del carcere e ho iniziato proprio come insegnante, perché un ragazzo di 18 anni aveva bisogno di studiare. Seguivo quindi chi riprendeva lo studio per un diploma di scuola media o superiore ma anche l’università oltre ai corsi di alfabetizzazione per gli stranieri. Ho accompagnato nel percorso di studi anche Erika De Nardo, per citare una persona che è finita nelle cronache nazionali, studiava Lettere e io facevo il ponte tra lei e l’università; prendevo il programma, compravo i libri, organizzavo gli esami con il professore e facevo da testimone”.

Come è stato il primo impatto con questo servizio? “Lo vedevo come una responsabilità che avevo nei confronti delle persone detenute, credo molto nella formazione e nello studio e credo che per loro sia un’opportunità molto importante perché dà un senso al vuoto che hanno nella loro esperienza carceraria, anche perché hanno molto tempo libero e per loro può diventare un’occasione di riscatto”.

È cambiato per questo aspetto il mondo del carcere in questi anni? “Sì, molto. Adesso ci sono corsi e molte attività e sono entrate le scuole, quindi non c’era più bisogno dell’insegnamento da parte dei volontari. Sono quindi rimasta per dedicarmi ai colloqui, che servono a dare ai detenuti un sostegno morale e psicologico cercando di capire la loro situazione aiutandoli nelle necessità, molte volte anche aiutando i familiari… non è solo la persona detenuta a scontare la pena ma è tutta la famiglia”.

Cosa ti chiedono durante i colloqui? “Ci sono dei bisogni più materiali, dal vestito, alla telefonata, al francobollo per spedire una lettera a casa, ma il più delle volte hanno bisogno di ascolto, di sentirsi compresi e non solo giudicati. Questo fa la differenza, perché sentono di essere ancora voluti bene da qualcuno. E questa è la molla che permette il contatto e la valutazione della loro vita, perché ci sia davvero anche un tentativo di guardare a cosa hanno fatto, chiedersi perché siano arrivati al reato commesso e come poi si possa recuperare sia in termini sociali che personali, perché ci sia un pentimento e in seguito un impegno per un futuro di bene. Mi parlano dei loro sogni, delle loro sofferenze e del dispiacere per il dolore causato, anche dei reati che hanno commesso...

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