Ho raccontato in “Pukajirka 1981 – storie di uomini e di montagne” come nacque dalle nostre parti l’alpinismo. Alpinismo di necessità, contrabbando, caccia, fieno magro, legna, ricerca di qualcosa per sbarcare il lunario.
Le nonne raccontavano nelle stalle storie di folletti, streghe, maghi, lupi e orsi che si potevano incontrare nei boschi, per tenerci lontani dai pericoli. Poi arrivarono i primi “signori” che volevano salire in vetta. “A fare che?”.
La montagna, per chi ci viveva sotto e intorno, era già avara per conto suo, perché mai andare a “cercarsi il freddo fuori dal letto” per niente? Non conoscevano i sentieri quei signori e ingaggiavano gente del posto che sapeva “salire”.
Il bello fu che pagavano e allora “se avevano soldi da buttare” per salire dove i montanari erano già saliti cercando non la gloria ma altro, benvenuti in valle. I paesani comunque li guardavano male, gente che voleva far fatica per niente, loro che la fatica la facevano per tirar fuori qualcosa per campare, dalla montagna.
“Quando vedevo quelli che andavano in montagna li consideravo dei matti, non capivo cosa ci andassero a fare. Oggi avrei più paura andando in elicottero che in una scalata”. A quei “signori” hanno intitolato rifugi e cime. In vetta alla Presolana, senza corde, ci sono salito in gruppo in quinta elementare. Siamo saliti come gatti, ridendo della facilità della scalata. Il problema è stato quando abbiamo guardato giù il “canalino” per la discesa. Qualcuno si è messo a piangere. Ci hanno portato giù a spalle i “prefetti”, giovanotti aitanti e senza paura.
Poi a poco a poco i giovani dei paesi, per emulazione, hanno tentato le scalate, “se riescono quei signori di città, figuriamoci se non ce la facciamo noi”.
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