INTERVISTA DI ARABERARA DEL 10 APRILE 2019

GINO STRADA: “Non sono un pacifista, sono semplicemente contro la guerra. Noi andiamo dove c’è bisogno e... dove essere curati costa”

GINO STRADA: “Non sono  un pacifista, sono semplicemente contro la guerra. Noi andiamo dove c’è bisogno e... dove essere curati costa”
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“Missionario laico? Laico lo sono di sicuro, missionario direi proprio di no”. E’ della generazione che ̀fa già fatica a inquadrare se stessa in un mondo scomparso, le date, gli avvenimenti della storia fanno aggio su quelli personali. E definire se stessi oggi oltre che faticoso, sembra spesso inutile, il giorno dopo già devi cercare di non farti inquadrare da qualcuno cui fa comodo “arruolarti” per (sua) convenienza.

Gino Strada     è divertito dal fatto di non ricordare con precisione l’anno in cui si è laureato in medicina, che importanza può avere nel quadro della grande storia quel dettaglio, ai margini dell’affresco? Comunque dovrebbe essere il 1978. Poi si è specializzato in “chirurgia d’urgenza” che già sembra una scelta di qualcosa di... insolito. “Sì prima la chirurgia d’urgenza e poi quella cardiovascolare”.

Quest’ultima più comprensibile, il filone dei trapianti si capisce che possa affascinare un giovane laureato. Ma la chirurgia d’urgenza? “Perché è molto interessante professionalmente, vuol dire lavorare anche in condizioni non sempre facili, anche qui, e poi a Milano c’era questa grande scuola di chirurgia d’urgenza che era stata fondata dal Prof. Staudacher” (Carlo Staudacher che dal 1969 al 1980 fu assistente ospedaliero nella Divisione di Chirurgia d’urgenza all’Ospedale Maggiore di Milano – n.d.r.).

“Io lavoravo nel suo reparto quindi è stato naturale affezionarmi a quella disciplina”. Hai detto “anche qui”, che vuol dire in Italia... “Beh, la chirurgia d’urgenza è quella che si occupa dei traumatismi acuti, è una chirurgia molto impegnativa, si lavora tanto, non ci sono mai orari, non è un’attività di tutto riposo”. Una carriera davanti, anche se non di tutto riposo, e uno decide di occuparsi di “traumi” in paesi lontani... “Lontani per modo di dire, lontano è tutto quello che non vogliamo sentire come nostro, ma se ci si pensa non sono poi tanto lontani...”. Adesso no, ma in quegli anni... “Allora non pensavo specificamente alla chirurgia di guerra. Volevo appena verificare cosa poteva voler dire essere un chirurgo in quelle parti del mondo dove chirurghi e medici non ce ne sono molti”.

E il primo impegno fu con la Croce Rossa. “Partii con la Croce Rossa Internazionale da non confondere con la Croce Rossa Italiana. Partii e finii in un ospedale per feriti di guerra in Pakistan. I feriti della guerra afgana venivano trasportati in Pakistan... credo fosse il 1987. Era un ospedale della Croce Rossa Internazionale”. E poi ti sei staccato dalla Croce Rossa. “Ci ho lavorato un po’ di anni, fino al 1992”. E come è nata l’idea di creare i “tuoi” ospedali? “L’idea di Emergency è nata da quell’esperienza lì, dai bisogni enormi che vedi e di quanto poco si possa rispondere e quindi una mano in più serve sempre”.

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