Riccarda, ostetrica negli anni Sessanta: "Nelle case si vedeva il cielo, una volta una mamma aveva paura di morire e..."
È un pomeriggio dal sapore autunnale, il cielo grigio sembra somigliare poco a quello di maggio, ma contrasta con il sorriso di Riccarda, di cognome Andreoli, ostetrica di professione, negli anni in cui ancora si veniva alla luce tra le mura di casa. Si avvicina la festa della mamma, lei che è mamma di Federico, “un figlio purtroppo l’ho perso e poi è arrivato lui” e lei che di mamme ne ha conosciute tante lungo il suo cammino. 83 anni, nata, cresciuta e di casa ancora oggi a Gratacasolo e una luce negli occhi che racconta la meraviglia di un mestiere che le ha regalato tante gioie, ma che ha saputo metterla a dura prova. Sul tavolo un bicchier d’acqua per schiarire la voce quando i ricordi riaffiorano improvvisi e sono un tuffo al cuore e i vecchi album di fotografie in bianco e nero che raccontano una storia che resta indelebile. Riccarda lo sfoglia piano, con cura, indicando con l’indice tutte quelle fotografie che la riportano con la mente a quando tutto è iniziato.
“Una signora che abitava vicino a casa mia era tornata dalla Svizzera con una bambina piccola e a me piaceva tenerla in braccio, coccolarla e portarla qua e là. Una delle mie sorelle un giorno mi ha detto: ‘Visto che ti piacciono così tanto i bambini, potresti fare l’ostetrica’, ma sai, a quei tempi non si sapeva niente, era tutto un tabù. Vedevi le donne il pancione e poi con il loro bambino in braccio. Ho iniziato a pensarci e quando ho compiuto i 18 anni mi sono fatta accompagnare a Brescia, all’Ospedale Civile e mi sono fermata come interna per tre anni… avevo una maestra molto severa, me lo ricordo ancora, ma aveva ragione, d’altronde io e le mie colleghe eravamo molto giovani”.
Da Brescia alla Franciacorta… “Un giorno stavo aspettando il treno per andare a Iseo e poi a Sarnico, si avvicina un uomo che mi chiede il mio mestiere… io all’inizio sono diffidente, cerco di allontanarlo, non sapevo cosa potesse volere da me, poi si avvicina un’altra persona che mi dice che posso fidarmi e quindi decido di ascoltarlo. Mi ha spiegato che a Corte Franca stavano cercando un’ostetrica, perché ne era appena andata via una e a quel tempo ti assicuro che di bambini ne nascevano davvero tanti! Insomma, mi ha caricata sulla moto e siamo partiti, quando siamo arrivati, la donna che si occupava di questo ambulatorio era così felice… e qui sono rimasta per tre anni”.
Non è difficile riavvolgere il nastro e far riaffiorare quei ricordi: “Non c’erano i telefoni una volta! Venivano in moto o in bicicletta a chiamarmi e io correvo dalle donne… In alcune case si vedeva il cielo e non è un modo di dire! Non c’erano le comodità di oggi, non c’erano i servizi, faceva freddo e le donne non riuscivano mai a partorire. Mio fratello mi aveva comprato una bicicletta e avevo una borsa da ostetrica con dentro di tutto e di più e andavo dove c’era bisogno di me”.
Chiusa la parentesi in Franciacorta, Riccarda è tornata nel suo paese, in riva al lago: “Mio fratello aveva saputo che all’ospedale di Pisogne, dove oggi c’è la casa di riposo, stavano cercando personale e quindi mi sono avvicinata a casa. Facevo sia l’ostetrica che l’infermiera in sala operatoria. Ricordo un giorno, ero di turno per la sala operatoria, ma ho sentito una donna urlare mentre stava partorendo, mi sono tolta il camice e sono andata ad assisterla… non potevo, ma è stato più forte di me. A Pisogne sono rimasta per otto anni. Ho dei bei ricordi, perché i bambini poi mi riconoscevano e quando mi incontravano per strada mi dicevano: ‘Ciao comarina’, perché le mamme avevano raccontato di me. E questo succede ancora oggi, perché ne ho fatti nascere davvero tanti di bambini… per raccontarti un episodio, un giorno prendo l’auto e ho forato una gomma proprio qui nella zona industriale. Esce il titolare dell’azienda con i suoi due operai… al titolare ha fatto nascere i figli e i due operai li ho fatti nascere io (sorride, ndr). E poi, sai, ai tempi l’ostetrica era sempre invitata al battesimo, anzi, eri quasi obbligata per non offendere la famiglia”.
Ci sono anche ricordi difficili da raccontare: “Una signora bergamasca veniva a Pisogne a farsi visitare, mi diceva spesso in dialetto: ‘Cosa dice Riccarda, ma morirò?’ e io le rispondevo “Ma no Gabriella, cosa dice, si dà la vita, non si muore”. È arrivato il giorno del parto, che sembrava essere andato abbastanza bene per essere il primo bambino, insomma nulla che facesse pensare ad una tragedia e invece Gabriella non ce l’ha fatta”.
Un attimo di silenzio, Riccarda leva gli occhiali e asciuga la lacrima che scende lungo la guancia: “Mi fa ancora lo stesso effetto a pensarci. Quel giorno avrei voluto smettere e lasciare tutto, se non fosse stato per il medico che era lì con me ad incoraggiarmi, non so come sarebbe andata. Non era un mestiere semplice, sia per le condizioni in cui ti trovavi, ma anche perché non esistevano tutti quegli esami che si possono fare adesso e quando nascevano bambini malati o con la sindrome di Down, per esempio, dovevi dirlo tu alla mamma e trovare le parole giuste non era affatto facile. Le donne che aiutavo a partorire mi vedevano sempre volentieri, perché cercavo di essere sempre sorridente e per loro era un incoraggiamento. Lo dicevo sempre anche alle infermiere che erano con me di chiudere i problemi in casa, al lavoro non dovevano esserci”.
I momenti più difficili l’hanno segnata parecchio: “Sì, al momento andavo in crisi, era difficile sopportare il dolore di veder morire una mamma o un bambino, ma poi si doveva andare avanti… e avrei rifatto altre mille volte la scelta di fare l’ostetrica. E quante cose sono cambiate nel frattempo – tra le mani tiene il diploma che porta la data del 28 giugno 1961 -, ricordo quando sono stata all’ospedale di Trescore e ho visto per la prima volta l’ecografia… quello che vedevo era un cuoricino che stava battendo! Non ci potevo credere, ero così emozionata che il medico pensava mi stessi sentendo male”.
Quanti bambini ha fatto nascere? “Ne ho contati qualche centinaio, poi ho smesso di segnarli perché erano davvero tanti, lavoravo di giorno e di notte, anche quando sono diventata mamma, lasciavo il mio bambino dalla vicina di casa che mi aiutava… non è come adesso che di bambini ne nascono pochi”.
Poi è arrivata la pensione, ma Riccarda non si è fermata nemmeno un secondo: “Sono andata in pensione presto, avevo solo 44 anni, ma mi sono buttata a capofitto nel mondo del volontariato, che adesso ho lasciato per… limiti di età. Ora mi piace andare al centro anziani a fare quattro chiacchiere, d’altronde quando sei abituata a stare in mezzo alla gente e a lavorare, non riesci proprio a stare ferma. Una volta andata in pensione ho iniziato a far parte del centro aiuto alla vita e del centro italiano femminile… anche in questi contesti mi sono capitate storie incredibili. Quando è mancato mio marito per esempio sono venute a far visita tre donne, tre generazioni che non sarebbero esistite se non ci fosse stato l’aiuto dell’associazione. È stata una bella emozione vederle lì davanti a me. E poi quante volte mi hanno suonato il campanello per chiedermi consigli o per fare il bagnetto ai bambini… si, ero in pensione, ma ho sempre proseguito con la mia professione”. Un lungo viaggio di emozioni che restano nel cuore per sempre.
L'ARTICOLO E' PUBBLICATO SUL NUMERO DI ARABERARA VALCAMONICA IN EDICOLA DAL 5 MAGGIO