diga del gleno 1923 - 2023

“Cent’anni di solitudine”: un inserto di 16 pagine con foto e testimonianze inedite

“Cent’anni di solitudine”: un inserto di 16 pagine con foto e testimonianze inedite
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IL FRAGORE DELLA MEMORIA

Piero Bonicelli

Nel fragore delle parole e delle parolacce di questi tempi, in cui sembra manchino tragedie sufficienti per colpire i sentimenti e perfino la morte viene rappresentata in modo grottesco, solo la dignità della memoria può riportarci agli eterni interrogativi sul senso della vita.

In fondo il nostro scomposto agitarci finisce pur sempre in un manifesto a lutto sul muro del paese. Guerre, pestilenze, disastri hanno sempre segnato la storia di una comunità, ideali punti di arrivo e di ricostruzione fisica (ma anche morale) di una nazione, di una valle, di un paese.

La gente di Dezzo, uno dei paesi che furono spazzati via la mattina del primo dicembre di cento anni fa, i sopravvissuti di quella gente, vagavano storditi tra le macerie, sconnessi nel pensiero e nelle parole, impacciati nel sentimento del prendere atto di essere ancora vivi, quando quasi tutti se n’erano andati, all’improvviso, lasciandosi dietro la desolazione del niente, l’incapacità a rendersi conto del disastro, l’impotenza di fronte a qualcosa che è più grande delle presunzioni e delle speranze.

In quei momenti ogni superstite si è trovato di fronte alle verità: dimenticate le baruffe, le beghe, i secolari rancori coltivati con tanto accanimento, il lavoro, la famiglia, la casa, la chiesa, le ambizioni, i progetti così ben congegnati nelle sere fumose dentro le cucine e le stalle tiepide.

Restava una vita da rifare da capo, come se la storia ricominciasse a contare i suoi anni, primo giorno dopo il disastro. Del passato restavano i ricordi e la rabbia per qualcosa che non si riusciva a spiegare, perché aveva tolto tutto, gli affetti, gli amori e perfino l’odio.

E si valutava la piccola forza residua per chiedersi se bastava per ricominciare a vivere una nuova vita, visto che quell’altra se n’era andata in pochi minuti.

La memoria è scomoda quando non è gonfia di retorica, riporta alle possibilità della morte, che sembra scongiurata per sempre, oggi che appena uno muore, il suo posto viene freneticamente occupato da quello che aspettava, come su un autobus troppo pieno, in cui tutti sembrano pensare che si debba viaggiare in eterno, nell’unica prospettiva di trovarsi un posto più comodo per il viaggio, senza interrogarsi sull’ultima fermata.

L’acqua e il fuoco, gli elementi divoranti della natura, in quel disastro del 1923, uniti nella devastazione.

L’acqua che piomba dalla diga spaccata verso la valle, i ponti, le cascine, le chiese, le case, cercando la via di sfogo, troppo a lungo trattenuta, in un furore liberatorio che azzera le ambizioni e le speranze.

L’acqua che fa salire il fuoco altissimo (‘una torre di fuoco’) dalle centrali idroelettriche e dai forni fusori, che si trascina dietro i corpi senza il rancore della strage: perché la natura è incapace di rimorsi. Solo i suoi presuntuosi abitatori, gli uomini, fanno e disfano leggi e precetti, capaci di rispetto e trasgressione, santità e perversione, conoscitori superficiali delle leggi naturali e quindi rabbiosi contestatori di quelle che poi chiamano disgrazie.

La memoria è la parte più rilevante della cultura di un paese. È la memoria il tessuto connettivo di una comunità. Un paese senza memoria non ha niente dietro e non avrà niente davanti: perché ognuno vive per conto proprio. Senza memoria non c’è paese: c’è solo gente che vive in un posto.

* * *

Era di sabato quel mattino del 1 dicembre 1923, pioveva da giorni e in alto era comparsa un po’ di neve già da novembre. “C’erano dieci centimetri di neve quel 10 novembre e noi ragazzi siamo saliti alla diga a piedi nudi - ha raccontato Fermo Bianchi di Bueggio - Si piangeva per il freddo ma si andava per legna e i pezzi di armatura rimasti sotto la diga facevano comodo. La diga faceva paura, l’acqua usciva da tutte le parti”.

Alle sette del mattino cominciarono a sbattere le imposte delle case, si era levato il vento della disgrazia.

I ragazzi erano nelle cucine per la colazione, la messa era finita, sul campanile il sagrestano di Bueggio ricaricava l’orologio, in chiesa c’erano ancora due donne. Saltarono i vetri delle finestre e un fiume di fango arrivò sulle porte.

Qualcuno uscì di casa in tempo per vedere un fumo nero che annunciava la fiumana d’acqua della diga crollata, il campanile che correva dritto per una decina di metri, la chiesa che si spaccava in due, il cimitero spazzato via, la gente che correva su per i prati.

Chi rimase intrappolato in casa corse in solaio, sperando che i muri reggessero.

A Vilminore la gente si trovò con i vestiti bagnati fradici, vedendo il fumo da lontano e pensando alla fine del mondo.

L’acqua si portò via le centrali, il santuario della Madonnina, un’altra centrale, e piombò su Dezzo. Il forno fusorio fu raso al suolo mandando impennate di fuoco, ‘alte come cattedrali’.

Un momento, poi la fiumana sembrava essersi persa nella gola del Dezzo. Tornò indietro per l’evidente impossibilità di incanalarsi tutta d’un fiato, spazzò via quello che rimaneva, e corse giù di nuovo a portare disgrazia ad Angolo, Corna di Darfo e ai paesi sulla riva dell’Oglio, dove il fiume d’acqua andò a buttarsi portando il disastro. Rimase il fango e la morte. I sopravvissuti si gettavano per terra, si rotolavano nella melma, imprecavano con gli occhi allucinati oppure si muovevano come pazzi per il dolore.

Al Viganò, l’imprenditore che aveva fatto costruire la diga, la notizia la portarono due donne che aveva a servizio, stava a Vilminore nella sua bella villa all’ingresso del paese.

“Il Viganò si era allungato per terra e batteva la testa sui sassi, gridavano e piangevano tutti”.

I giornali nazionali riportavano la notizia in prima pagina con il numero dei morti buttato lì a caso, l’inventario non si poteva fare, i parenti lontani non erano ancora tornati a casa per trovarsi di fronte al fango, tegole, materassi, coperte, porte, pentole, vestiti, sangue.

E poi la fame. Il veterinario analizzava i pezzi di carne che si trovavano tra la melma, per vedere se era carne umana o di animale.

Il 1923 è il centenario della tragedia. La memoria sfiorisce, i dolori sono leniti, come la rabbia. L’omaggio alle vittime è solo nella memoria.

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